Articolo Salvatore Settis 29-01-2017 “Il Sole 24 Ore”

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ARTE 29 Gennaio 2017Il Sole 24 Ore domenica
Adottato il «giuramento di vitruvio»
Architetture antiscempio

«Gli errori dei medici finiscono sottoterra, gli errori degli architetti sono sotto gli occhi di tutti»: questo aforisma circola in molte varianti, fra cui una attribuita a Frank Lloyd Wright («i medici possono seppellire i loro errori, gli architetti possono solo coprirli con piante rampicanti»), che con qualche irriverenza potrebbe adattarsi agli “eco-grattacieli” del nostro tempo. Ma lasciamo perdere queste spiritosaggini: la verità è che fra “gli errori dei medici” che danneggiano e qualche volta uccidono i pazienti, e gli errori degli architetti, che devastano il corpo sociale riempiendo di orrori città e campagne, c’è davvero una forte analogia. Lo spazio in cui viviamo è un formidabile capitale cognitivo che costruisce l’identità collettiva delle comunità. La frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, il dilagare di periferie-sprawl, il moltiplicarsi di rovine, discariche, non-luoghi residuali che crescono con una malata obesità, innesca patologie individuali e sociali, sradica le identità acquisite e modifica i comportamenti, segna di piaghe indelebili il corpo della società.
Fu pensando a questo tema che proposi tre anni fa (nel Domenicale del 12 gennaio 2014) di introdurre, per analogia al giuramento di Ippocrate, con cui il medico s’impegna a operare solo per il bene del paziente, un “giuramento di Vitruvio”, secondo il quale gli architetti promettano di «legare etica e conoscenza impegnandosi a realizzare sempre edifici di qualità evitando scempi ambientali». Quel testo era tratto dalla mia prolusione alla facoltà di Architettura di Reggio Calabria, che mi conferiva una laurea honoris causa; una versione più matura dello stesso testo formò poi un capitolo (intitolato L’etica dell’architetto: Ippocrate e Vitruvio) del mio piccolo libro Se Venezia muore (Einaudi 2015), poi tradotto in francese, tedesco e inglese. Scrivevo allora: «l’architetto opera in un empireo dominato dalla sola ragione estetica e senza alcun rapporto con la società, la cittadinanza, la memoria culturale? È vero il contrario: il suo mestiere ha un forte e capillare impatto sulla vita di tutti attraverso le modificazioni dell’ambiente urbano e del paesaggio, cioè delle delle dinamiche della società civile. Ma nel mestiere dell’architetto esiste un’etica professionale? Un architetto deve solo obbedire alle richieste del committente, oppure, quando progetta e costruisce un edificio o trasforma un paesaggio o una città, deve avere tener conto del contesto storico, naturale, ambientale in cui opera?». E richiamavo la testimonianza di Rem Koolhaas, nell’introduzione al catalogo della Biennale 2014: «l’economia di mercato ha corroso la dimensione morale dell’architettura […], costretta a muoversi entro il sistema neoliberista di cui Ronald Reagan è stato il protoarchitetto».
La proposta di un “giuramento di Vitruvio”, modellata sul giuramento di Ippocrate (un testo, scritto intorno al 400 a.C., che viene dalla scuola ippocratica), era fondata sulla celebre pagina del De architectura di Vitruvio in cui l’architetto romano (tardo I secolo a.C.) delinea la figura dell’architetto ideale, elencando fra le sue virtù necessarie la cultura che noi chiameremmo umanistica, la conoscenza storica, il rispetto della salubrità dell’ambiente. Le reazioni non si fecero attendere. Per citare solo qualcuno, Francesco Gurrieri (La Nazione, 25 gennaio 2014) riconnesse le mie parole a quanto su temi simili scrivevano Michelucci, Quaroni e Savioli, elogiando la «lucida stimolante equazione culturale» fra l’etica del medico e quella dell’architetto. Tiziana Di Bella (architetto di Prato) scrisse che «di fronte agli scempi e alle brutture del territorio gli Ordini tacciono, le Facoltà di Architettura tacciono, – salvo rare, fioche voci»; che «non dovremmo neppure chiamare architetti coloro che progettano senza considerare le relazioni profonde fra uomo, ambiente e paesaggio»; e deplorò che sia «praticamente inesistente l’educazione al paesaggio e all’architettura -nostra terza pelle», perché «Le Corbusier diceva che l’architettura ha torto, la vita ha ragione». Stefano Pantaleoni (architetto di Bologna) obiettò invece che, mentre il rapporto medico-paziente si svolge tra individui, «l’architetto è un elemento, primario finché si vuole, ma non autonomo, di una catena decisionale e produttiva», anzi «ha ormai spazi quasi inesistenti per esercitare il suo giudizio», e deve pertanto «accordare investitori con burocrati, accontentare gli esteti (…), prendere decisioni dolorosamente inevitabili per trovare il minimo dei compromessi». 
Massimo Bilò (architetto di Roma) scriveva al Sole 24 Ore (26 gennaio 2014) che le principali responsabilità ricadono sui «decisori (i committenti pubblici in particolare), e servirebbe un tribunale di giustizia per mettere al riparo i professionisti dal ricatto continuo in cui operano»; più che un giuramento degli architetti, continuava, «sarebbe il caso di imporre un giuramento a quanti gestiscono la res publica» (al che avevo risposto che «sulla nostra Costituzione i nostri politici già giurano, ma delegare solo a loro ogni principio di etica pubblica sarebbe abdicare non solo alla dignità di architetto, ma anche a quella di cittadino»). Nicola Di Battista, in un editoriale di Domus (febbraio 2014), «profondamente colpito» dalla mia proposta, osservava però che «additare l’architetto come uno dei principali colpevoli delle devastazioni del paesaggio è un po’ come sparare sulla Croce Rossa», dato che «l’architettura non è, non può, non deve essere un’arte personale. È un’arte collettiva», e non ha senso parlare di etica riferendosi a un’intera professione, anzi «non c’è bisogno oggi di nuovi giuramenti fatti da questa professione». Al contrario, Giuseppe Barbieri (professore a Venezia) richiamava un suo studio sulle Virtù dell’architetto, in cui mostra come i precetti di Vitruvio siano stati accolti e ampliati da Serlio, Cataneo, Rusconi, e più indirettamente (ed efficacemente) da Palladio o dal suo commentatore Daniele Barbaro, secondo cui «la dignità dell’Architettura è alla Sapienza vicina e come Virtù Heroica nel mezzo di tutte l’Arti dimora». Altri ancora ricordarono la formula di proclamazione dei laureati in ingegneria al Politecnico di Milano (che li impegna ad «operare con dignità senza soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualunque natura»); Alesssandro Mortarino, infine, segnalava, sul blog www.salviamoilpaesaggio.it, un gruppo di architetti che aveva lanciato una sorta di “obiezione civile collettiva” nei confronti del consumo di suolo e delle devastazioni ambientali. 
È in questo contesto che il vero e proprio testo di un “giuramento di Vitruvio” è stato scritto, da professionisti del Centro Studi Vitruviani di Fano e del Dipartimento di Architettura di Ferrara, e adottato dall’Ordine degli architetti di Reggio Emilia, presieduto da Andrea Rinaldi, lanciando la proposta che esso venga accolto e adottato da altri Ordini in tutta Italia. Qualche volta (anche stavolta?) una “modesta proposta”, anche se fatta sottovoce, trova forti echi nella società, specialmente quando un duro trauma l’abbia colpita. È il caso della Siria, dove l’architetto Marwa al-Sabouni, in un libro commovente (The Battle for Home, 2016), denuncia il «vandalismo di Stato» che semina casermoni di cemento, «serbatoi di alienazione sociale»; e lo fa distruggendo i centri storici, in cui «le antiche città si mostravano generose coi loro residenti, perpetuando armonia fra le culture, e trasmettendo questo modello ai cittadini: quasi fossero, le città storiche, un grembo entro cui prendeva forma una moralità condivisa». La moralità dell’architettura, appunto.

Salvatore Settis